di Luca Tesser | L’aperitivo è un rito, un’abitudine che sa di socialità e intimità allo stesso tempo, ed è italiano a tutti gli effetti. L’etimologia della parola riporta al latino “aperitivus”, ossia “che apre”, da intendersi nel significato di “preparare al pasto”. Infatti, già in epoca romana si era soliti consumare vino con aggiunta di spezie prima di cenare, perché assumere qualcosa di alcolico, e in particolare di amaricante, prima di sedersi a tavola, stimola l’appetito, favorendo la secrezione gastrica. Se a questo aggiungiamo l’aspetto conviviale, sociale e culturale, possiamo dire di essere di fronte a un capolavoro dell’italianità.
Le origini
La storia dell’aperitivo italiano è indissolubilmente legata al Vermouth e a Torino, una città che tra il 1700 e il 1800 si apre a una modernità da grande capitale europea. Nei grandi cafè torinesi, davanti a un bicchiere di Vermouth, si parla di cultura, affari e politica.
È in questa Torino che freme, sotto l’egida dei Savoia, per creare quello che a breve sarebbe diventato il Regno d’Italia, che nasce, insieme al Vermouth inventato da Carpano, il rituale sociale dell’aperitivo. Torino, città moderna, rivoluzionaria e innovativa, è in questi anni la culla di un vivace sviluppo sociale, in cui convivono la borghesia, motore trainante della nazione, e la nobiltà cittadina, moderna e dinamica. E se a Carpano spetta l’invenzione del Vermouth, a Martini va dato il merito della diffusione di questo prodotto nel mondo. Negli anni successivi all’unità d’Italia, il rito dell’aperitivo diventa prassi comune in molte città. Il Vermouth inizia a essere abbinato ad altri elementi, nascono cocktail come il Milano-Torino, l’Americano, si iniziano ad abbinare liquori, soda e ghiaccio, quest’ultimo, tra l’altro, disponibile esclusivamente nei bar. Una data da ricordare è poi il 1919, anno in cui a Firenze il Conte Negroni dà vita al drink italiano più conosciuto al mondo.
Dal ventennio al secondo dopoguerra
L’avvento del regime fascista e l’impeto nazionalista hanno delle ricadute importanti anche sul bere miscelato. Sono gli anni del pieno fermento futurista e della nascita delle poli-bibite. Il cocktail futurista è una creazione totalmente italiana, così come sono tassativamente italiani i bizzarri nomi delle bevande ideate in questo periodo, da ricordare anche per l’introduzione dell’abbinamento tra cibo e aperitivo. Nel secondo dopoguerra sarà invece Milano a rubare la scena, diventando vero e proprio simbolo di un modo di bere e di fare l’aperitivo. Nascono negli anni Sessanta le terrazze Martini e l’aperitivo diventa sempre più un rito di socialità, da consumare all’insegna del benessere. È l’epoca d’oro del bere italiano, ben rappresentata dalle iconiche campagne pubblicitarie di Fernet, Campari, Martini e Cynar.
Gli ultimi decenni
Gli anni Ottanta sono l’ultimo baluardo dell’italianità votata al pre-dinner, perché negli anni seguenti qualcosa, evidentemente, è andato storto: tra gli anni Novanta e il nuovo millennio, infatti, l’idea dell’aperitivo è stata stravolta, tanto da trasformare questo simbolo del bere italiano in qualcosa di totalmente diverso. Anzi, in qualcosa che non dovrebbe proprio essere. L’amaricante, che è la base del concetto di aperitivo, quasi sparisce, lasciando spazio a sapori dolci o speziati. O, semplicemente, lasciando passare il concetto che si possa bere qualsiasi cosa. In questo modo il Moijto, il Moscow Mule, il Cuba Libre, il Daiquiri o qualsiasi sparkling con base dolce, come lo Spritz alla violetta, divengono parte integrante del rito dell’aperitivo. Così come l’oliva, la tartina, la patatina si troveranno ad essere sostituiti da tavole imbandite da ogni genere alimentare, che non preparano alla cena, ma diventano cena stessa.
Nascono brutture come “l’aperitivo alla Milanese”, un vero e proprio paradosso, se pensiamo che la città italiana più legata al rito dell’aperitivo abbia rotto con il passato per ingozzarsi di qualsiasi pietanza ed esportare l’idea di abbinare al bere cibo in quantità, senza cognizione di causa. E da qui, al terribile termine “apericena”, esatto contrario del concetto di aperitivo, il passo è stato breve.
In questa parabola ci si è quasi dimenticati del Vermouth, diventato ingrediente al punto da non essere nemmeno più concepito, da solo, come aperitivo, si sono abbandonati l’Americano, il Negroni, il Milano Torino, il semplice Campari shakerato e si è lasciato che lo Spritz, in ogni sua forma e variante, dominasse incontrastato la scena dell’aperitivo. E non a caso parlo di dominio: la storia dello Spritz risale ai tempi della dominazione austriaca, tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento, quando in Veneto si diffuse l’usanza di spruzzare Selz nel vino, per alleggerire una bevanda considerata troppo pesante per i palati austriaci. Il nome deriva, infatti, dal tedesco “spritzen”, che significa “spruzzare”. Tra le due guerre mondiali lo Spritz si trasforma: in questo periodo, infatti, viene arricchito con liquori amaricanti come l’Aperol, nato nel 1919 per iniziativa dei fratelli Barbieri, e il Select, la cui origine risale al 1920. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta esce dai confini regionali e arriva, sul finire del secolo scorso, a dominare il mercato dell’aperitivo in Italia.
Il presente
Come già accennato, oggi si incorre nell’errore di eliminare l’elemento amaricante dall’aperitivo e svuotare così quest’ultimo del suo significato originale. Uno Spritz a base di liquori che non hanno alcun elemento amaricante, come può essere un liquore alla violetta o al passion fruit, non può essere considerato un aperitivo. E lo stesso discorso vale per un Moijto, un Daiquiri, un Cuba Libre o un Gin Fizz: nelle ricette di questi cocktail non c’è nessun ingrediente che “apre”. Piuttosto, ha senso servire come pre-dinner un San Bitter, un Campari Soda o un Crodino: quanto meno, in queste bevande è presente la parte amaricante, essenza vera e propria dell’aperitivo all’italiana.
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