Patrick Pistolesi, quando c’è sentimento

di Virna Bottarelli | Se sei un giovane curioso, se nella tua famiglia convivono due lingue e due culture, se sei appassionato e hai voglia di costruirti un futuro tutto tuo, anche una città come Roma, a vent’anni, ti può stare stretta. Allora decidi di partire: lasci l’Italia e fai esperienze in Europa e negli Stati Uniti. Poi, però, il fascino della città eterna ti richiama a sé, così torni nella Capitale e metti a frutto quanto hai imparato in giro per il mondo. Ecco, in breve, la storia, felice, di Patrick Pistolesi, proprietario e co-fondatore del Drink Kong, cocktail bar nel rione Monti, a Roma, nato nel 2018 e già primo locale tra quelli italiani nella lista dei World’s 50 Best Bar.

Da ragazzo hai studiato lingue, eri appassionato di letteratura e hai anche calcato per diversi anni il palcoscenico, recitando a teatro. Come è scattata la scintilla per il mondo del bar?

Poco dopo i vent’anni, quando mi sono reso conto che non era fattibile mantenermi lavorando come attore, ho incontrato il mondo del bar, che sarebbe poi diventato il mio palcoscenico. Non è però un caso che mi sia appassionato, oltre che al teatro, anche al lavoro dietro al bancone: mia madre è irlandese e per gli irlandesi il pub è un po’ come il salotto di casa. È un luogo dove ci si reca non solo per bere una buona birra o un drink, ma anche semplicemente per incontrarsi, parlare, condividere esperienze. Nel pub si annullano le distanze, cadono le barriere generazionali: è questo senso di comunità, ancora prima della curiosità per le materie prime e la miscelazione, che mi ha affascinato e ha fatto in modo che quella di bartender diventasse la mia professione.

Come sei diventato, poi, un professionista quotato nel mondo della miscelazione?

Quando ho iniziato, il lavoro del bartender non era una professione riconosciuta come può esserlo ora: buoni maestri e libri di settore erano difficilissimi da reperire. Oggi la nostra professione è addirittura ambita: ci sono genitori che mi portano i figli chiedendo di insegnare loro il mestiere, una cosa impensabile fino a qualche anno fa. Mi fa indubbiamente piacere, perché è segno dei progressi che abbiamo compiuto, ma mi fa anche riflettere sul fatto che si è creata tanta confusione attorno al nostro mestiere e che ci sia anche molta speculazione attorno alla nostra figura professionale. Detto ciò, per lavorare nella miscelazione studiare è fondamentale, perché bisogna essere innanzitutto molto informati e preparati. È un po’ come a teatro: prima di andare in scena bisogna studiare il copione.

E, come a teatro, ci si espone ai complimenti e alle critiche…

Oggi c’è la tendenza a dare il proprio giudizio su tutto; anche nel nostro campo i critici sono tanti e i clienti stessi sono più informati ed esigenti. Ma c’è un lato positivo, perché questo senso critico diffuso ci aiuta a tenere sempre alta l’asticella. Se poi arrivano i premi, invece, tanto meglio: anche se non lavoro in funzione della conquista di un Award o della scalata di una classifica, non nego che vedere riconosciuto il proprio lavoro è una grande soddisfazione, soprattutto se hai dedicato la tua vita a questa professione.

Qual è l’idea da cui è nato, nel 2018, il Drink Kong?

Ho vissuto anch’io il mondo della miscelazione degli speakeasy, che andava per la maggiore attorno ai primi dieci anni del Duemila, ma ho voluto creare qualcosa di diametralmente opposto: niente di esclusivo, piuttosto un luogo di convivialità, aperto a tutti. Volevo essere un po’ “disruptive” e aprire un locale innovativo, che avesse un respiro internazionale e inclusivo. Il Drink Kong è uno spazio di 300 mq, aperto a qualsiasi tipo di ospite.

Nel tuo locale hai quindi portato quel senso di comunità tipico del pub irlandese al quale sei affezionato, ma anche un marcato tocco di innovazione. Ma che cosa significa, per te, fare innovazione oggi nella miscelazione?

L’innovazione è una ricerca personale, ma è anche una sensibilità che chi lavora sul campo da anni, come me, ha acquisito. È un po’ come se avessimo imparato a percepire nell’aria quello che c’è di nuovo. Dal mio punto di vista, fare innovazione significa usare tecniche moderne che mi consentono di dare il massimo risalto a un sapore, in modo che questo evochi una sensazione precisa nella persona che beve il drink, la riporti magari a un sapore preciso di un’esperienza vissuta o di una fase della sua vita. Innoviamo quando riusciamo a creare un contatto sentimentale tra la persona e il cocktail, quando diamo un’anima al drink.

Che cosa rappresentano invece per te “qualità” ed “eccellenza”?

Credo che la qualità paghi sempre e per questo l’ho sempre messa al primo posto nel mio lavoro. Poi ho scelto di rimanere in Italia, di investire nella mia città, di avere a cuore le materie prime del nostro territorio, di fare tesoro dei sapori e di rispettare la stagionalità. Questa per me è la qualità. E per quanto riguarda l’eccellenza, invece, bisogna saperla riconoscere e valorizzare.

Sapore e stagionalità sono per te punti fermi, mentre le tendenze sono sempre in movimento. Che cosa “va per la maggiore” oggi?

Oggi si tende a creare cocktail originali: passata la moda dei twist on classic, si preferisce partire da zero da una materia prima e abbinare poi distillati e altri ingredienti che possono essere di contorno. C’è un grande interesse per gli acidi naturali, dal citrico al lattico, che rendono il cocktail più trasparente, elegante e minimale. E, anche se non è il nostro caso, c’è poi sempre chi ama creare l’effetto “wow”, con decorazioni ricercate o utilizzando un ghiaccio tagliato in blocchi particolari.

Per la nuova drink list del Drink Kong avete scelto un nome particolare: Perimetro e Forma. Ce ne vuoi parlare?

È un menù che comprende più di 24 drink, una selezione che consente di compiere un percorso esplorativo sensoriale, toccando i cinque principali parametri del sapore: umami, acido, bitter, fruttato e dry. Il nome Perimetro e Forma è figlio del nostro amore per il Giappone in generale e per i libri di design architettonico giapponese in particolare: l’idea è che cambiando un “lato” del drink riusciamo a ridefinire le situazioni verticali e orizzontali che si succedono nel palato. Può sembrare complesso, ma non è altro che un gioco pensato per far sì che il nostro ospite si lasci catturare dalla sensazione che il nostro drink evoca in lui e torni a contatto con il suo istinto.