di Luca Tesser | Non sono mai stato un grande appassionato dell’abbinamento fra cocktail e cibo. Mi è sempre sembrato forzato il fatto di mangiare un piatto bevendo un cocktail e ho sempre considerato preferibile cenare con un buon bicchiere di vino o con una birra. Al massimo, potevo considerare un buon piatto di crudités accompagnate da un Martini. Principalmente è l’intensità alcolica del cocktail, o della maggior parte dei cocktail, a non convincermi sull’abbinamento con i piatti e, oltremodo, il fatto che non ho mai trovato un piatto che stia veramente bene con un drink, perché c’è sempre qualcosa che stona: troppo acido, troppo alcolico, troppo dolce ecc. Questa mia convinzione derivava dal fatto che mi sono sempre limitato a considerare le due cose, piatto e drink, come separate, esattamente come nell’abbinamento cibo con vino. Semplicemente, con il cocktail non avviene la stessa magia, non si crea quel contrasto in grado di dare valore al piatto.
Cambiare punto di vista
Ultimamente, però, ho avuto modo di ricredermi e di apprezzare pienamente l’abbinamento fra cibo e cocktail, vedendo la cosa da un altro punto di vista, considerando cocktail e piatto come un’unica entità, anche se riuscire nell’impresa non è assolutamente facile.
Come prima considerazione, a mio avviso, il gioco funziona solo ed esclusivamente ad altissimi livelli e in campo creativo. Il senso è quello di non cercare di ostinarsi ad abbinare un qualsiasi piatto, anche se di altissimo livello, con un qualsiasi cocktail classico: una pasta alla carbonara non sta bene con un Old Fashioned, così come il coniglio alla cacciatora non sta bene con un Manhattan. Diciamoci la verità, nemmeno mangiando messicano l’abbinamento con un Margarita è ottimale. Oltretutto, se in un’ipotetica cena abbinassimo ogni piatto a un cocktail, ne usciremmo indubbiamente completamente sbronzi.
L’intensità alcolica della stragrande maggioranza dei cocktail classici è uno dei problemi principali e non potrà che stonare con il piatto, perché entrambi daranno un senso di pienezza, mentre l’elemento che accompagna il piatto deve lavare il palato, sgrassarlo, prepararlo a un altro boccone. L’unica valorizzazione possibile sarà, quindi, riuscire a dare un senso di completezza, considerando i due elementi come uno solo. Se il cocktail vuole essere un compagno ideale del cibo, può farlo solo ed esclusivamente se sarà in grado di valorizzare quest’ultimo, completarlo. Non deve perciò essere protagonista, ma arrivare a essere un tutt’uno con la pietanza, completandola in termini di gusto, al punto che il boccone di cibo, senza il sorso di cocktail, non ha valore.
Una questione di alto livello
Per la complessità che comporta l’abbinamento fra cocktail e cucina, direi che solo nell’alta cucina, quella più creativa, è possibile ottenere dei buoni risultati. È qui che estro e competenza danno risultati incredibilmente di alto livello.
La novità sta proprio nel creare una sinergia fra chef e mixologist, affinché il piatto e il drink siano un’unica cosa: ad esempio, la parte acida del piatto sarà tralasciata perché contemplata nel drink. È un lavoro, certo, non facile, perché richiede sostanzialmente la creazione di un piatto “non completo” e, allo stesso tempo, la realizzazione di un drink che da solo non funzionerebbe.
Insomma, ci troviamo di fronte all’ingresso di una nuova figura in cucina e penso che a breve ci sarà una vera e propria specializzazione: il gastro-mixologist o il cusine-mixologist, se preferite. Una figura atta a completare il lavoro dello chef, anzi un completamento di squadra, un duo chiamato a creare nuove sinfonie di gusto e a far crollare i preconcetti sull’abbinamento fra cocktail e cucina.
Pensate a una cena nella quale ad ogni portata si abbina un cocktail differente, in grado di dialogare in maniera assolutamente sinergica con il commensale, dove l’esperienza diventa non relegata al piatto, ma riesce ad andare oltre. Perché, pensateci, anche quando ad ogni portata abbiniamo un vino diverso, non creiamo un tutt’uno con il piatto, ma un accompagnamento. Attraverso la mixology si potrebbe invece arrivare all’impensabile, a unire veramente il piatto con ciò che beviamo. Tuttavia, per far questo occorrerà andare anche oltre la mixology, scoprire nuove tecniche o, perlomeno, utilizzare quelle già note in maniera differente.
Nuovi scenari per mixology e alta cucina
Per far si che il sodalizio tra cocktail e cibo funzioni perfettamente occorre superare ancora tantissimi ostacoli. In primis, va trovata la giusta sinergia fra due individui, lo chef e il mixologist, e va superata la diffidenza verso tale abbinamento. Ci troviamo davanti ad un nuovo modo di concepire la cucina, così come davanti ad un nuovo mondo di concepire la miscelazione: lo chef dovrà pensare il piatto in perfetta simbiosi con il mixologist, riuscendo a legare il piatto e il drink come se si trattasse di un’unica entità, giocando con un’incompletezza che verrà completata dal cocktail. Pensiamo a parti acide o floreali, erbacee, amaricanti, balsamiche, sapide, agrodolci, che potranno essere usate dal drink al piatto e viceversa, completando i due elementi e creandone in termini di gusto uno solo. Per la mixology l’evoluzione in questi termini è alleggerire il grado alcolico, magari utilizzando come strumento distillati analcolici in grado di creare sinergie estremamente interessanti, abbinando syrup e cordiali, sperimentando con texture differenti. È anche vero che un drink non deve necessariamente essere alcolico: l’evoluzione della miscelazione analcolica o low alcol potrebbe veramente creare una svolta assoluta in questo campo. Concludendo, la mixology applicata all’alta cucina potrebbe rivelarsi una vera e propria innovazione in termini di tecnica, gusto e sensazione, e aprire una nuova dimensione nel pensare al cibo e all’evoluzione della cucina stessa. Ben venga, allora, ogni tipo di sperimentazione, perché solo sperimentando si potrà ottenere qualcosa di assolutamente straordinario, capace di aprire una nuova frontiera del gusto.
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