Salvatore Calabrese: La parola al Maestro

di Virna BottarelliUna storia come quella di Salvatore Calabrese, uno dei nomi più celebri del panorama internazionale della miscelazione, è difficile da condensare in un articolo. Per fortuna, The Maestro, come lo hanno battezzato gli inglesi, che lo conoscono bene essendo lui ormai londinese d’adozione, tra i suoi tanti talenti ha anche una spiccata dote comunicativa e in una piacevole chiacchierata telefonica mi ha parlato della sua vita, della passione per il suo mestiere e della sete di conoscenza che lo hanno portato ai vertici della mixology mondiale. Meglio, allora, lasciare a lui la parola.

La sua storia potrebbe iniziare con un classico: “C’era una volta…”.  Vuole continuare lei?  

C’era una volta un ragazzino di Maiori, cittadina sulla Costiera Amalfitana, che, come si usava all’epoca, negli anni Sessanta, d’estate veniva mandato a lavorare nelle strutture ricettive della zona. Era il 1966, avevo 11 anni e passai la stagione estiva dietro il bancone del bar all’Hotel Reginna, nella mia cittadina. Tutto è iniziato lì, sotto l’ala protettrice del Signor Raffaello, colui che posso definire il mio mentore, perché mi ha insegnato le basi del mestiere e le regole dell’ospitalità, un’arte nella quale era un vero e proprio maestro. Era l’epoca della Dolce Vita, si prestava molta attenzione all’eleganza, allo stile: gli ospiti dell’hotel non si sarebbero mai permessi di entrare nel bar calzando delle ciabatte.

Quando ha capito che quella del bar sarebbe stata la sua strada?

Amo dire che non ho scelto io l’ospitalità, ma è stata lei a scegliere me. Il mio sogno di gioventù era, infatti, intraprendere la carriera nella marina e diventare un capitano di lungo corso, ma un incidente all’occhio sinistro ha compromesso la mia vista e reso irrealizzabile quell’obiettivo. Così, dall’età di diciassette anni, mi sono dedicato a tempo pieno al lavoro nella ristorazione, che offriva molte opportunità, e a 21 anni sono diventato maître all’Hotel Panorama, sempre a Maiori.

Ma la Costiera Amalfitana, a un certo punto, non le basta più …

Nel 1976 ho conosciuto mia moglie, nel 1981 ci siamo sposati e nel 1982, proprio su suggerimento di mia moglie, ho risposto a un annuncio di lavoro del bar del Dukes Hotel di Londra, che cercava un barman. È stato l’inizio della mia carriera. Il Dukes era all’epoca un piccolo locale, con sei tavoli e una ventina di coperti, un piccolo gioiello incastonato nel centro di Londra, non molto conosciuto, e con un incasso piuttosto ridotto.

A farlo crescere ci ha pensato proprio lei, con l’idea della Liquid History: ce ne parla?  

Mi sono concentrato su come far crescere il locale e ho avuto l’idea di puntare sulla storia, nel senso di portarla nei drink attraverso distillati antichi, in modo che gli ospiti la assaporassero, nel vero senso della parola. Gli inglesi sono sempre stati grandi collezionisti nel mondo del vino, del Whisky, del Cognac, Londra era una città storica e il Duke’s stesso aveva un passato affascinante: tutta quella storia meritava di essere conosciuta anche dagli avventori del locale. Così, dopo aver convinto il proprietario del Dukes della bontà della mia idea, ho iniziato a fare ricerche per recuperare bottiglie di epoche antiche. Non è stato facile, ci è voluto del tempo, ma con caparbietà sono riuscito a trovare un collezionista dal quale comprare le prime bottiglie di distillati risalenti a secoli precedenti.

L’appellativo “The maestro”, invece, come è nato?

Credo mi sia stato dato perché ho contribuito a creare la cultura del bere bene e perché, grazie alla mia passione per il sapere, ho una profonda conoscenza del mondo della miscelazione e dei distillati, in particolare del Cognac. Hanno iniziato a chiamarmi The maestro dopo che ho lasciato il Dukes e sono approdato al Library Bar del Lanesborough Hotel, sempre a Londra. Qui ho concepito la filosofia del teatro del bar e ideato il Direct Martini, un cocktail che mi ha dato celebrità nel mondo della mixology. Ma mi fa piacere ricordare che il titolo di Maestro mi è stato conferito anche formalmente nel 2018, quando la Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte mi ha assegnato il riconoscimento di Maestro d’Arte e Mestiere.

Un altro nome che ha decretato il suo successo è quello del Breakfast Martini, nato nel 1996 assaporando una marmellata e divenuto un’icona. Ma che cosa serve di speciale per creare un cocktail che resti nella storia?

Per diventare un classico, credo che un cocktail debba basarsi su ingredienti semplici, ma avere al tempo stesso qualcosa di unico e, cosa non trascurabile, un nome che suoni bene. Nel caso del Breakfast Martini l’ingrediente unico è stato la marmellata. Il tutto parte comunque dalla qualità del distillato, che considero un po’ come la tela sulla quale dipingiamo il nostro drink: se la tela non è buona, il quadro non durerà nel tempo. Al Lanesborough Hotel ho iniziato a prestare molta attenzione alla qualità dei distillati: usavo i migliori, perché mi consentivano di dare al cocktail una struttura pulita, che si manteneva nel retrogusto. Credo di aver contribuito in questo modo a quella che poi, negli anni Novanta, sarebbe stata la Golden Age della miscelazione, un’epoca nella quale si è affermata l’importanza di usare prodotti di qualità nella preparazione dei drink.

In che cosa la miscelazione di oggi è diversa da quella degli anni dei suoi esordi?

Il mondo della miscelazione è molto cresciuto da allora, c’è sete di sapere, conoscere i tanti prodotti che oggi propone il mercato. Negli anni Sessanta ricordo che all’Hotel Reginna avevamo a disposizione una trentina di bottiglie, oggi nelle bottigliere dei locali ce ne sono a centinaia. È cambiata anche la figura del bartender: un tempo il barista era il gradino più basso del mondo dell’ospitalità, il maître, lo chef e il sommelier avevano più prestigio, oggi invece è un profilo professionale riconosciuto e anche ambìto da tanti ragazzi che scelgono questo percorso lavorativo. Ci sono indubbiamente più opportunità di imparare, anche se noto una minore capacità di creare quei classici, semplici, che sanno diventare universali. È un po’ come se ogni bartender creasse il proprio drink, magari eccezionale, creato con una tecnica perfetta, ma difficile poi da replicare e, per questo, destinato a rimanere tra le mura di un determinato locale. I bartender oggi sono sicuramente abili e tecnicamente preparati, ma, forse, sono meno propensi a creare drink che si possano definire classici, riconosciuti in tutto il mondo e replicabili anche dal consumatore.

Oggi si sente più bartender o businessman?

Ho un animo da bartender che non mi lascerà mai, ma nel tempo ho dovuto anche imparare a essere un uomo di business. Ci sono aspetti gestionali nel nostro lavoro che non sono banali: non si pensi che sia semplice avviare e mantenere un’attività nel nostro settore. Oggi il lavoro del barman è molto più attrattivo rispetto al passato, il settore è cresciuto molto e siamo riconosciuti come professionisti, ma i giovani devono sapere che servono due mani per fare bene il nostro lavoro ed essere un grande barman: una è la mano della miscelazione, l’altra è la mano dell’ospitalità. Si può essere ottimi bartender, bravi nell’arte della miscelazione, ma per avere una carriera duratura e proficua bisogna saper ospitare. Io stesso, oggi, anche se non vado quasi più dietro al bancone, entro nei miei locali e mi intrattengo con gli ospiti.

Qual è il requisito principale per un bartender che vuole lavorare in uno dei suoi locali?

È importante che conosca il mondo dei distillati, perché solo conoscendo le caratteristiche e la storia dei tanti prodotti che oggi abbiamo in bottigliera un barman può scegliere quello giusto e consigliare al meglio gli ospiti. È poi altrettanto fondamentale partire dalla cosiddetta gavetta, imparando innanzitutto a muoversi nel locale e dietro al bancone, sapersi così inserire in un lavoro di squadra, cogliendo piccoli dettagli e sfumature dell’ambiente in cui si è calati. Queste sono le basi per crescere professionalmente e io amo vedere i miei “allievi” crescere.

C’è ancora qualcosa che pensa di dover imparare?

Certamente: nel momento in cui si pensa di non avere più nulla da imparare si pecca di arroganza. Faccio questo mestiere da quasi 59 anni e ho sempre qualcosa da apprendere, anche magari da ragazzi alle prime armi. Mi piace lavorare insieme ai giovani, ispirarli ma anche lasciarmi ispirare dalle loro idee.

Ha ricevuto lo scorso dicembre l’Onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica, un riconoscimento che lo consacra ambasciatore del Made in Italy nel mondo. Ma il Made in Italy nella miscelazione, secondo lei, che cos’è?

Credo che nel Dna di noi italiani ci sia uno spiccato senso artistico: basta pensare a quante opere d’arte nel mondo portano la firma di un italiano. L’arte è capacità di creare, di dare un tocco nuovo a ciò che facciamo, ed è questo che, come italiani, portiamo nella miscelazione. Siamo bravi a creare sempre qualcosa di diverso e abbiamo una cultura della degustazione che è unica al mondo: questi sono due elementi indiscutibili di italianità, che abbiamo saputo portare nella miscelazione.


Chi è Salvatore Calabrese

Nasce a Maiori, località della Costa Amalfitana, nel 1955. A 11 anni inizia a lavorare all’Hotel Reginna di Amalfi e da quel momento il settore dell’ospitalità diventa il suo habitat naturale. Dopo essere diventato, a 21 anni, il maître più giovane d’Italia, all’Hotel Panorama, nella sua città natale, nel 1980 si trasferisce a Londra. Al bar del Dukes Hotel, dove dà corpo alla sua idea della Liquid History, e al The Library Bar, presso il Lanesborough Hotel, Calabrese accumula esperienza e notorietà. La sua carriera nel bartending decolla, è insignito di numerosi premi e onorificenze e apre diversi locali, a Londra e non solo. Nella city inaugura il Salvatore at Fifty e il Salvatore at Playboy, a Los Angeles il Mixology 101 e il Bound by Salvatore, a Hong Kong il Salvatore alla Maison Eight e, ancora, a Londra, il The Donovan Bar al Brown’s Hotel. Più recentemente, nel 2022, è la volta del Velvet al Corinthia Hotel. Nel 2012 ha creato il celebre Salvatore’s Legacy, cocktail realizzato con distillati da bottiglie antiche: un Kümmel del 1770, un Clos de Griffier Cognac del 1788, un Dubb Orange Curacao del 1860 e un bitter Angostura degli inizi del Novecento. Portano la sua firma anche lo Spicy Fifty, il Breakfast Martini e il Negroni Svegliato.