Classic cocktail: il Martini

di Luca Tesser | Il Martini Cocktail è frutto di un’evoluzione di gusto e stile. Alle origini di questo cocktail, che ha saputo creare intorno a sé una fama come nessun altro drink, vi è la semplicità: abbinare un Gin con il Vermouth dry, infatti, non è qualcosa di particolarmente complesso. A rigor di logica il suo parente più stretto è il Martinez, di cui il Martini rappresenta l’evoluzione in secchezza: da un cocktail incredibilmente aromatico si è passati a un cocktail decisamente secco. Il London Dry Gin ha sostituito l’Old Tom Gin e il Vermouth Dry ha fatto lo stesso con il Vermouth Rosso. C’è anche chi considera il Martini un’evoluzione dal Manhattan, con il Gin al posto del Whiskey: non è un’idea sbagliata, perché la struttura è la stessa del Martinez, ma in realtà il cambiamento risiede proprio nel Vermouth, che nel tempo ha assecondato una propensione crescente per il Dry. Lo stesso Wiston Churchill preferiva il Martini “secco”: era sua convinzione che per un perfetto Martini Cocktail bastasse che la bottiglia di Gin fosse stata abbastanza vicina a una bottiglia di Vermouth Dry.

Nel corso della sua storia, la cui data di inizio, sebbene non ci siano riferimenti precisi, potrebbe essere fissata nel 1912, il Martini Cocktail ha quindi intrapreso un percorso sempre più deciso verso il “dry”. Da una sorta di mezzo e mezzo, la proporzione del Vermouth all’interno del cocktail si è sempre più ridotta, arrivando all’estremo, il cosiddetto “In and Out”, ossia arrivando a insaporire leggermente il ghiaccio con il Vermouth. Come? Lavando il ghiaccio con il Vermouth, una tecnica che, personalmente, trovo aberrante. Perché mai dovremmo gettare il Vermouth, che deve invece rimanere una parte del cocktail e, per quanto mi riguarda, si deve sentire?  C’è anche chi osa una vaporizzazione di Vermouth o lo mette con il contagocce: anche queste soluzioni mi sembrano estreme e non giovano all’armonia del cocktail. Tanto varrebbe, allora, versarsi un bicchiere di gin ghiacciato. La scelta del Vermouth è quindi fondamentale, così come è importante concentrarsi sulla sua proporzione all’interno del cocktail, che non dovrebbe essere, a mio avviso, mai inferiore ai 10ml. Che cosa dire, poi, della scelta del Gin? Meglio usare sempre un London Dry ed evitare tutti i gin estremi o con botaniche atipiche.

Personalizzare, perché no?

Creare un proprio Martini assemblando due diversi Gin o due differenti Vermouth può essere una buona idea: la personalizzazione, del resto, gioca un ruolo fondamentale in questo cocktail. L’importante è che il Martini rimanga un Martini e non si trasformi in un Twist. Elementi a cui prestare molta attenzione sono, infine, la diluizione e la temperatura: è proprio nella correttezza di questi aspetti che risiede la difficoltà di realizzare un ottimo Martini. Non c’è nulla di peggio di un Martini Cocktail troppo diluito o troppo poco diluito, mentre, per quanto riguarda la temperatura, non c’è bisogno di servire un Martini a temperature estremamente basse.  La questione sulla temperatura di servizio di questo cocktail è spesso arrivata al paradosso, come se dovesse essere servito a temperature negative estreme. Il mixing glass ha i suoi limiti, non si può arrivare oltre un certo punto. Infine, soprattutto, fate attenzione alla diluizione: più freddo non vuol dire più diluito. La cosa importante è servirlo immediatamente, senza permettere che si scaldi.

Oliva o limone?

Infine, al Martini è associato l’eterno dilemma: oliva o limone? È una questione di gusti. Quindi, non necessariamente il Martini con l’oliva deve essere bevuto come aperitivo e quello al limone come after dinner. Una certezza, però, c’è e riguarda la versione limone: fate attenzione agli olii essenziali e strizzate la scorzetta non troppo vicino alla superficie del cocktail, per evitare un eccessivo sentore di limone.


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