Bitter, una tradizione italiana

di Giovanni Campari | I Bitter si distinguono dagli Amari non tanto per la composizione, quanto, soprattutto per l’utilizzo: i primi sono usati per l’aperitivo e i secondi per il dopo cena. Ne consegue una derivazione assai prolifica di celebri cocktail pre-dinner che utilizzano Bitter, spesso in abbinamento con il Vermouth rosso. Come tutti i prodotti della liquoristica classica, anche i Bitter hanno una derivazione storica di tipo medicale; già nel rinascimento i liquori infusi con erbe e spezie amaricanti erano utilizzati come digestivi o per curare i malanni (famosi sono i vini ippocratici, antenati dei moderni Vermouth) perché tali sostanze amare sono in grado di stimolare la secrezione di succhi gastrici e perciò favorire la digestione.

Il Bitter italiano nasce tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo; spesso erano proprio gli stessi produttori di Vermouth a completare la gamma con Bitter ed altri liquori molto in voga al tempo. Il colore classico del Bitter è il rosso, che varia dal porpora al cremisi allo scarlatto e che lo distingueva dagli Amari, di colore bruno e opaco; senza dubbio questa caratteristica così accattivante ha contribuito in larga misura al successo di questo liquore. Ma non solo il rosso, anche il giallo e l’arancione erano colori tradizionali dei Bitter, colori sgargianti per un liquore da aperitivo, rito che in Italia si diffonde inizialmente soprattutto nelle regioni del nord, in particolare a Torino. Qui nel 1786 Antonio Benedetto Carpano inventa il Vermouth, vino liquoroso che ha rappresentato il classico aperitivo dello Stato Sabaudo, prima, e del Regno d’Italia, poi. Ma l’elemento di successo che consacrò il Bitter alla storia fu proprio l’intuizione che un Amaro a una gradazione più bassa potesse essere bevuto come aperitivo, in sostituzione o in combinazione con il Vermouth.

Produzione del Bitter

I Bitter sono liquori costituiti da acqua, alcol, zucchero, composti aromatici e amaricanti derivati da molti ingredienti botanici (radici, scorze di agrumi, erbe amare, erbe aromatiche, droghe amare, aromatiche ed amaro-aromatiche) ed eventualmente coloranti. Nel suo libro “Amari e Bitter, storia e produzione dagli speziali ai bartender” (ed. Graphot, 2019) Fulvio Piccinino, uno dei massimi esperti italiani di Vermouth e liquori, dà una eloquente dissertazione sia storica che produttiva di Bitter e Amari.

Gli ingredienti botanici utilizzati per la produzione del Bitter devono subire una estrazione delle loro componenti aromatiche e amaricanti; possono essere estratti mediante tinture, enoliti, alcolati, idrolati, distillati.

Le tinture sono ottenute mettendo a macerare per infusione le botaniche in una soluzione idroalcolica; possono essere singole, cioè derivate da una singola pianta, oppure composte se derivano dalla combinazione di più piante. Le botaniche utilizzate sono normalmente essiccate, qualora venissero utilizzate fresche le si definisce madri. In liquoristica si usano prevalentemente le botaniche essiccate, tuttavia, nella mia personale esperienza ho riscontrato una grande differenza tra una tintura e una madre: le madri degli agrumi, per esempio, apportano molta freschezza e delle sensazioni di frutta fresca mista ad acidità che una tintura ottenuta con scorze essiccate difficilmente avrà. Non esiste una regola, il bello e il brutto della liquoristica è che non è una scienza esatta, le variabili sono innumerevoli e quando si disegna una ricetta bisogna seguire l’istinto. Le tinture hanno una percentuale di alcol variabile a seconda del tipo di pianta, le radici richiedono concentrazioni di alcol maggiori e lunghi tempi di estrazione rispetto ad altre botaniche come i fiori o gli agrumi.

Gli enoliti si ottengono per macerazione a freddo o a caldo di piante aromatiche nel vino, ma poiché la gradazione alcolica del vino è molto inferiore a quella che hanno le tinture, si ha una scarsa capacità estrattiva e perciò non vengono generalmente utilizzati nella produzione dei bitter, ma per produrre Vermouth e vini ippocratici come il Barolo chinato.

Gli alcolati sono il prodotto della distillazione delle tinture, a differenza di queste non hanno mai parti amare ma solo aromatiche, sono spesso utilizzati per aumentare la percezione aromatica delle botaniche senza conferire sapore. L’uso degli alcolati al posto delle tinture permette anche di ridurre la presenza di oli essenziali pesanti e pectine che danno torbidità, astringenza e sensazioni boccali poco gradevoli quando sono presenti in eccesso (queste sostanze, sempre presenti nelle tinture, vengono poi rimosse mediante la filtrazione).

Infine, gli idrolati sono il risultato della distillazione delle piante aromatiche in corrente di vapore; questo processo si usa per separare oli essenziali di alcune piante che vengono poste in un cestello attraversato da una corrente di vapore, questo andrà a strippare gli olii essenziali i quali poi ricondenseranno in un recipiente e si separeranno dall’acqua.

Come abbiamo visto, esistono molti metodi per estrarre i composti aromatici dalle piante, a seconda del tipo di botanica e di ciò che vogliamo realizzare possiamo usare un metodo piuttosto che un altro; tuttavia, bisogna ricordare che per semplicità si suole spesso utilizzare un solo metodo estrattivo. Se per esempio decidiamo di utilizzare quello della macerazione idroalcolica, ovvero quello delle tinture che poi è anche il metodo più usato, potremo disegnare la ricetta partendo da tinture singole per poi arrivare a definire le proporzioni della tintura composta che ci darà il profilo aromatico desiderato. Una volta ottenuto il nostro estratto di botaniche, che ha la composizione aromatica desiderata, dobbiamo procedere a diluirlo, zuccherarlo e filtrarlo.

La riduzione del grado alcolico è una procedura importantissima per ottenere una gradazione ottimale, poiché la base di partenza è quasi sempre di grado superiore, per permettere una estrazione più efficiente dei composti aromatici.

La diluizione con acqua porta sempre a un intorbidimento della soluzione, questo perché gli oli essenziali, gli acidi grassi e gli alcoli superiori possono dare luogo a reazioni chimiche durante la diluizione. Normalmente la diluizione e l’aggiunta di zucchero avvengono simultaneamente, ovvero si aggiunge acqua e una quantità calcolata di zucchero in essa disciolta: uno sciroppo di zucchero.

Quando si aggiunge lo sciroppo di zucchero, che contiene acqua, la soluzione diventa meno capace di mantenere gli oli essenziali in soluzione, ne risulta perciò un aspetto torbido. Per togliere la torbidità è necessario operare una filtrazione; che avviene generalmente a freddo, infatti le basse temperature permettono di separare meglio le molecole pesanti come acidi grassi, colloidi che si sono formati, oli essenziali e anche alcuni aromi. La temperatura di filtrazione e la dimensione dei pori della membrana del filtro sono due parametri fondamentali; più i pori sono stretti e la temperatura bassa e maggiori saranno le ritenzioni delle molecole, ne risulterà un prodotto filtrato sempre più limpido e meno ricco di aromi man mano che si abbassa la temperatura o si usa un filtro con pori più stretti

Campari, il Bitter più famoso al mondo

Gaspare Campari nacque a Cassolnovo, all’epoca nel Regno di Sardegna ma oggi provincia di Pavia, da una famiglia di agricoltori; nel 1842 si trasferì a Torino per studiare i liquori e approfondire la propria conoscenza sui distillati e qui conobbe fortunosamente Teofilo Barla, maestro pasticcere di Casa Savoia, che lo raccomandò a Giacomo Bass quale apprendista nella sua famosa liquoreria e confetteria di piazza Castello a Torino. Nel 1850 tornò a Novara dove, grazie ai suoi studi ed esperimenti, approderà alla scoperta di alcuni liquori dal gusto innovativo e dal nome stravagante. Tra questi, quello di maggior successo fu il “Bitter all’uso d’Hollanda” di color rosso rubino, che divenne così popolare da meritarsi il soprannome “Bitter del Signor Campari”. Da lì al nome definitivo, Bitter Campari, il passo fu breve.

Gaspare si trasferì nel 1862 a Milano e alla sua morte, nel 1882, il figlio Davide Campari prese le redini dell’azienda avviando i primi stabilimenti e inaugurando nel 1902 quello di Sesto San Giovanni.

Nel 1915 apre i battenti il Camparino, in Galleria Vittorio Emanuele, locale che è ancora attivo, e nel 1935 nasce il Campari Soda, primo premiscelato al mondo tra i drink poco alcolici. Servito allora, come adesso, nella bottiglia a forma di calice capovolto disegnata dal designer futurista Fortunato Depero. Depero e Campari sono un binomio indissolubile, l’artista futurista disegna per Campari una serie di manifesti che diventeranno simbolo di un’epoca.

Nel dopoguerra Campari punta su una campagna di comunicazione massiva; i manifesti pubblicitari sono firmati dagli artisti più di spicco di quel periodo e diventano punto di riferimento anche per le altre aziende italiane. Campari si è già diffuso e conosciuto in oltre ottanta Paesi, ma in Italia si è imposto come brand affermato: ogni cocktail servito nei locali più chic di Milano contiene il Bitter Campari, dal Negroni all’Americano, dal Boulevardier al Garibaldi, così come è presente nei modesti bar di periferia e provincia, più semplicemente mescolato con del vino bianco nel Campari Macchiato. A metà degli anni Novanta una serie di acquisizioni porta l’azienda di Sesto San Giovanni, ora con sede legale in Olanda, a diventare uno dei leader mondiali nel settore delle bevande alcoliche, proprietaria di diversi marchi, tra cui: Aperol, Cynar, Crodino, Cinzano, Glen Grant, Wild Turkey, Skyy Spirits, Fratelli Averna, Braulio, Bulldog, Grand Marnier, Espolon, Montelobos.

Omologazione o diversità

Senza dubbio Campari è diventato il Bitter per antonomasia, grazie a una diffusione massiccia, un marketing aggressivo e una forte identità di prodotto; tuttavia, negli ultimi tempi, si sono affacciati nuovi produttori di Bitter che cercano di ritagliarsi fette di mercato; alcuni con una differenziazione solo di facciata, proponendo un prodotto palesemente ispirato al Campari, altri cercando di distinguersi per le note fortemente amaricanti o per altre caratteristiche, ma in pochi, a mio avviso, hanno finora spinto i confini del Bitter verso nuove definizioni dello stile. Se nel mondo del Vermouth c’è stata più innovazione, quello del Bitter risente forse di un timore reverenziale verso Campari? Siamo pronti per una rivoluzione del Bitter, per reinventare l’aperitivo italiano in chiave gastronomica? Ad oggi sono ancora rarissimi gli esempi in questo senso e, come sempre, sarà il mercato a premiare i brand che sapranno ridefinire il Bitter con nuove identità.


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