Benjamin Cavagna: Il bartending è creatività e sperimentazione

di Virna Bottarelli |  Benjamin Cavagna non ha dubbi: il successo più grande di un bartender è “guadagnarsi la fiducia del cliente, unita al rispetto da parte dei propri colleghi”. Guardando alla sua carriera, possiamo affermare che nel suo caso il successo è arrivato. E continua.

Cresciuto in una piccola città tra Milano e Verona, inizia a lavorare come bartender quando ancora è uno studente e approda niente meno che al 1930, il noto secret bar milanese.

“Il vero punto di arrivo della carriera è riuscire a creare il proprio luogo su misura, realizzare nel concreto quello che era solo una idea nella tua mente, ma soprattutto notare che questo viene apprezzato dal cliente e dalla Industry: questa è davvero la soddisfazione più grande”, aggiunge. Scopriamo qualcosa in più sul suo modo di concepire il bartending e sui suoi progetti.

Ho letto che studiavi filosofia… Che cosa ti ha attratto del mondo della miscelazione e del bartending e ti ha spinto poi a una carriera in questo ambito?

In realtà, ho iniziato a studiare filosofia dopo avere cominciato a fare il barista, in una realtà di provincia, facendo un’esperienza molto diversa dalla mia occupazione attuale, che è stata però fondamentale per costruire delle basi solide in questo lavoro. La filosofia arriva quindi dalla curiosità, dalla voglia di approfondire: volevo che i cocktail, le drink list, fossero basati su una ricerca accurata, uno studio dettagliato.

Uno dei nostri più famosi menu, basato sul tema dello sport, nasceva davvero dalla voglia di contestualizzare un argomento e raccontarlo nelle sue sfumature, nei suoi personaggi chiave, non in maniera superficiale. Unire l’approccio filosofico, antropologico, alla parte creativa del nostro lavoro è quello che è avvenuto anche con la nuova carta del 1930: partire dalla storia di un piatto, dei suoi ingredienti per arrivare alla sua versione liquida.

Sei un appassionato di Whisky: qual è il ruolo di questo distillato nella miscelazione?

Credo che a livello internazionale il Whisky abbia da sempre giocato un ruolo fondamentale: basta pensare ai grandi classici iconici, come Manhattan o Whisky Sour. Anche se nell’ultimo periodo “emergono” sempre più, a livello mondiale, distillati bianchi e agave, il Whisky continua a rimanere un grande protagonista della miscelazione. Sicuramente, il nostro Paese ha una posizione molto peculiare su questo tema, poiché culturalmente siamo profondamente condizionati dalla liquoristica italiana.

Da quando lavori, come è cambiato il settore della miscelazione e come sono cambiati i cocktail bar?

La miscelazione è profondamente cambiata, soprattutto in seguito all’introduzione di nuove tecnologie e sistemi di organizzazione. Oggi, sono diventate ormai di uso comune, abituali, diverse tecniche (ad esempio, fermentazione o chiarificazione) che prima pochissimi barman conoscevano.

Allo stesso modo, nei locali di oggi troviamo moltissimi macchinari che un tempo non c’erano…l’idea stessa di “prepararsi la linea” prima del servizio è sintomo di grandi cambiamenti dietro al bancone. Contestualmente, va detto, è mutata nel tempo anche l’aspettativa dei clienti, che si sono abituati ad avere proposte sempre più particolari.

Parlando nello specifico di speakeasy, a tuo avviso quali caratteristiche deve avere un locale per essere definito tale? E dal punto di vista della miscelazione in uno speakeasy, qual è l’elemento distintivo?

Le caratteristiche più immediate che connotano uno speakeasy sono solitamente la segretezza, l’essere in qualche modo “nascosto”. Direi che l’esclusività è sicuramente uno dei tratti più distintivi e importanti di questo tipo di locale, che rimanda a un concetto di “intimo, raccolto”.

Nel caso del 1930, abbiamo deciso di curare nei minimi dettagli l’esperienza del cliente, limitando la numerica di coperti. L’ospitalità nella sua massima espressione è imprescindibile nella nostra visione. Non ci sono invece particolari elementi distintivi in tema di miscelazione, ma trovo molto interessante il tema della sperimentazione, a cui siamo da sempre legati. Pensare di trovare un livello così alto di sperimentazione, come nella nostra nuova carta, in un contesto di speakeasy, è qualcosa che davvero colpisce nel segno.

Che cosa rappresentava Milano per il mondo della miscelazione quando hai iniziato e che cosa rappresenta oggi? 

Da quando ho iniziato ad oggi sono cambiati i protagonisti, ma non la “scena” della miscelazione milanese, e lo dico con una accezione assolutamente positiva. Milano, infatti, è rimasta nel tempo un palcoscenico importante, a differenza di altre città come Roma o Firenze dove sono cambiati i protagonisti ma hanno visto migliorare e aumentare nel tempo l’importanza della miscelazione. Il valore aggiunto di Milano è la sua dimensione internazionale, ancora però fortemente radicata alle sue tradizioni locali, ai clienti di quartiere: questo crea un mix interessantissimo che ti dà ampi margini di creatività.

Durante un servizio, puoi trovare al banco un businessman taiwanese che ha letto di noi dall’altra parte del mondo, insieme al cliente che abita nel quartiere e ci ha scelti come bar di riferimento. Trovo che sia bellissimo poter lavorare su grandi eventi ma allo stesso tempo “coccolare” il cliente che entra e racconta di avere appena finito un colloquio, e non in tutte le grandi città si può vivere questa commistione. Anche nei suoi luoghi più iconici e visitati, come i Navigli o Piazza del Duomo, convivono i turisti, chi viaggia per business e i milanesi di nascita o di adozione, che la vivono quotidianamente.

Nel mondo dei bartender, oggi, pensi prevalga la competitività o il senso di “community”?

Community, senza dubbio. Credo fortemente che le relazioni che intrecciamo in questo ambiente si trasformino in legami duraturi, in vere e proprie amicizie. Farmily poi, porta nel nome stesso il senso di famiglia, di community. Con il nostro gruppo siamo stati tra i primi a sposare questo approccio con il concept “From Milan to Milan”: nato nel 2018, consisteva in una serie di appuntamenti in cui venivano “ospitati” diversi bar di Milano ogni mese, per fare rete.

Che cosa ha rappresentato e rappresenta per te il 1930? Come è nata l’idea del “trasloco” del locale e che cosa è cambiato nel “nuovo” 1930?

Il 1930 per me è tutto. È stato il locale che mi ha permesso di studiare e mettere in partica al meglio questo mestiere, fare degli errori utili a crescere, proporre dei progetti che hanno avuto successo, certamente correndo dei rischi. È stato un grande laboratorio di sperimentazione, incubatore di idee e progetti che mi hanno arricchito professionalmente e umanamente. Quelle mura mi hanno regalato enormi gioie e qualche dolore, e fatto conoscere grandi persone, che nel tempo sono diventati amici intimi.

E, soprattutto, mi ha fatto incontrare mia moglie Tanja.

Riguardo al progetto del “nuovo” 1930, da qualche tempo ci chiedevamo se fosse necessario o meno fare qualche intervento per rinfrescare gli spazi; dopo diverse valutazioni abbiamo deciso di non fare le cose a metà, di uscire dalla nostra comfort zone e di rischiare, cambiando la location di un format a cui i clienti erano molto legati. Ci sono delle novità, e invito a venire a vederle di persona, ma è rimasta la voglia di far vivere ai nostri ospiti una esperienza unica, di coccolarli nei dettagli, utilizzando come sempre prodotti di eccellenza e attingendo alla nostra attitudine alla sperimentazione.


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