Il nettare degli Dei viene servito alla spina

di Roy Batty |

La miscelazione oggi appare come un’arte nobile, vuole essere considerata al pari dalla cucina e il bartender vuole essere una star, come uno chef di grido. Si cerca in ogni modo di arrivare sempre più in alto: gli ingredienti si fanno più raffinati, la tecnica s’innalza ad arte, si guarda al gesto, alle sfumature, l’immagine regna sovrana. Eppure, la miscelazione è morta. Morta e sepolta. Non avete ancora ricevuto la notizia? Il mestiere del bartender, del mixologist se preferite, non serve più a nulla. L’Anticristo è sceso sulla Terra: è il dominio della macchina, dell’asettico, della tecnica, dell’elettronica, del servire allo scopo di ottimizzare, di portare il margine d’errore allo zero assoluto.

La prima volta che ho sentito parlare di cocktail alla spina, la cosa mi è sembrata quasi comica. Non riuscivo proprio ad immaginarmi di entrare in un locale e ordinare un Manhattan alla spina. Un po’ come la prima volta che ho visto una cocktail machine. Schiaccio un tasto e la macchina eroga il drink: ma dove siamo, in un fast food? Mi sembrava totalmente assurdo pensare di eliminare l’elemento umano, la sensibilità, la mano, la comprensione. Ma è stato quando ho visto per la prima volta una bella serie di spine con la loro cromatura perfetta dietro il bancone di un top bar, che un brivido mi ha attraversato la schiena: la miscelazione era morta. Era successo davvero! Trovare cocktail alla spina alla fiera della salsiccia o vedere l’obbrobrio scintillante a una festa, a un matrimonio, o dovunque occorresse servire centinaia di persone in breve tempo, non mi stupiva: in questi casi la sua utilità era indubbia, sebbene non ci si aspettasse anche la qualità. Ma vedere questa macchina infernale in un top bar mi ha davvero sconvolto. Non riuscivo a comprenderne l’utilità, se non il fatto che chiunque fosse in grado di compiere quel lavoro e, quindi, il fatto che non servisse un bartender. Perché rendere così sterile e gelido il servizio, al punto, addirittura, di non dare nemmeno dei nomi ai cocktail, ma definendoli semplicemente con dei numeri e una serie di ingredienti? La miscelazione ha veramente bisogno di tutto ciò?

Si va in un locale per socializzare, consumare un cocktail, magari consigliato dal bartender, e vivere un’esperienza di gusto. In tutto ciò il lato umano, quello che chiamiamo servizio e che troviamo dall’altra parte del bancone, fa la differenza. Altrimenti, tanto varrebbe ordinare un servizio delivery direttamente a casa e chi se ne frega del locale, della gente che mi sta intorno, della scelta e, soprattutto, del rapporto interpersonale con un professionista. Sarebbe un po’ come andare in un ristorante sapendo che ogni piatto è surgelato, comprato all’ingrosso e semplicemente scaldato al microonde. Eppure, è successo. È reale. Ed eccoci qui: anche l’Ambrosia, signori, è servita alla spina.


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