di Andrea Lazzaretti | Non c’è innovazione senza tradizione: il futuro è, in qualche modo, sempre legato al passato. La miscelazione contemporanea è in continuo sviluppo: il cocktail ha seguito un percorso che l’ha avvicinato a tecniche innovative, spesso prese a prestito dalla cucina, e l’ha portato a esplorare nuove frontiere del gusto. Ma quanto conta il passato in questo percorso evolutivo? La sua è un’influenza determinante e assoluta. Anche nel cocktail più innovativo ricorre quasi sempre un ricordo del “classico” e se oggi possiamo parlare di evoluzione e di storia dei cocktail lo dobbiamo sicuramente ad alcuni grandi personaggi, fra cui Antonio Carpano e Jerry, The Professor, Thomas. I drink hanno rimandi a epoche lontane, presenti anche nelle cocktail list di chiara impronta moderna e perfezionate da barman che hanno dedicato la loro passione e le loro risorse nell’individuare metodi più fruibili e nuovi approcci al pubblico.
Le origini
I primi passi di questo percorso risalgono alla fine del Settecento, epoca della nascita di un prodotto straordinario: il Vermouth, creato grazie ad Antonio Carpano. In realtà un antenato di questo prodotto esisteva già: i Romani avevano a disposizione una bevanda che possiamo ritenere simile, un vino fortificato, che però non aveva una ricetta specifica. Ai tempi di Carpano si diffuse così nei caffè europei la moda del Vermouth come aperitivo e si gettarono le basi di un periodo fertile per gli inizi della miscelazione. Nel 1806, nella rivista Balance & Columbian Repository, comparve per la prima volta la parola “Cocktail”, definita come “bevanda stimolante composta da liquori di vario tipo, zucchero, acqua e amari”.
Sempre agli inizi del 1800 si iniziò a utilizzare una strumentazione specifica per la miscelazione. Secondo la versione più romantica della storia, la prima innovazione, antenato del jigger, fu un dosatore creato da Antoine Amédée Peychaud, un farmacista di New Orleans che dosava gli ingredienti utilizzando un coquetier, una comune tazza nella quale inserire l’uovo, da consumarsi come uovo alla coque. Vi chiederete perché questa sia la versione romantica, giusto?
Perché si sostiene che il termine cocktail derivi proprio dal nome di questo utensile. Per vedere pubblicato il primo libro della storia dedicato alla miscelazione bisogna però aspettare il 1862, anno in cui Jerry Thomas pubblicò la Bar-Tenders Guide (How To Mix Drinks), uno scritto che contribuì a diffondere conoscenza attorno a questa nuova arte. La guida è ancora oggi una vera e propria Bibbia per i mixologist.
Un percorso tra ostacoli e opportunità
I primi cocktail erano generalmente distillati ottenuti dal vino, dall’uva o dalla frutta: Brandy, Grappa, Acquavite, Cognac e, appunto, Vermouth. Purtroppo, però, proprio in quegli anni un’ondata di fillossera distrusse di colpo la maggior parte della produzione vinicola. Si sostituirono così questi prodotti con spiriti nazionali e internazionali, come Gin, Vodka e Rum, lavorati con aggiunta di frutta, bitter e spezie. Per la miscelazione i problemi però non erano finiti: nel 1919 con il Volstead Act, negli Stati Uniti si vietano la produzione e la vendita di alcolici. È l’inizio dell’epoca del Proibizionismo, un periodo che ha però un risvolto inaspettato e prezioso: la nascita degli Speakeasy, luoghi nascosti, dove somministrare gli alcolici di contrabbando. Essendo questi ultimi prodotti di scarsa qualità, la creatività dei barman era un elemento fondamentale per migliorarne il sapore. Ecco allora che si misero a punto tecniche di aromatizzazione innovative, tuttora utilizzate dai bartender.
Molti bartender lasciarono gli Stati Uniti, per evitare problemi con la polizia e la legge: da questo fenomeno di emigrazione inizia una stagione di scambi e confronti sulla miscelazione. L’internazionalizzazione della miscelazione americana si fuse alla qualità europea delle materie prime, gettando le basi di una fiorente e creativa epoca di sperimentazioni.
Il Futurismo
Quando parliamo di innovazioni non possiamo non toccare la parentesi italiana del Futurismo, movimento d’avanguardia di inizio Novecento promosso da Tommaso Marinetti. Le bizzarrie dell’avanguardia futurista si riflettono anche su tutte le forme d’arte, miscelazione inclusa. Sulla scia di questa corrente di pensiero nasce la “polibibita”, una bevanda alcolica servita generalmente in abbinamento a cibi decorativi, con l’intento di esaltare sensazioni contrapposte come salato-dolce e dolce-piccante.
L’Era Tiki
Nel 1933 negli Stati Uniti l’era del proibizionismo finisce. Ora si punta sull’importanza del mercato libero e nasce una moda cool e scenografica: la Tiki. Ispirata dalla nostalgia dei viaggiatori, che in epoca proibizionista si erano innamorati di paesi caldi e di culture prima totalmente sconosciute, la Tiki Era si caratterizza per ambientazioni esotiche nei cocktail bar americani, che narrano una visione romanzata della vita su coste paradisiache. Tra i pionieri di questa corrente troviamo Ernest Raymond Beaumont-Gantt e Victor Bergeron. Sono gli anni nei quali i drink sono prevalentemente a base Rum, con aggiunta di succhi di frutta e aromatizzanti alcolici e i locali si trasformano in piccoli specchi delle Hawaii e della Polinesia.
Una moda davvero irrestibile, tanto che anche la musica ne subì il fascino, immettendo sul mercato tracce dai suoni ancestrali, con tamburi, ukulele, rumori della giungla e canti tribali, un genere che prese il nome di “exotica”. Conosciutissimi ancora oggi, i drink più caratteristici della Tiki Era sono lo Zombie, il Mai Tai e lo Scorpion.
Il secondo dopoguerra
La principale novità sul mercato degli alcolici negli anni della Guerra Fredda è la diffusione del consumo di vodka: questo distillato diete vita a nuovi drink che diedero una vera e propria scossa al passato. Molto fece anche il cinema, che contribuì a rendere iconiche ricette come quella del Vesper Martini “Shaked, not Stirred”, la preferita di James Bond. Negli anni più recenti, anche grazie alla maggiore accessibilità del trasporto aereo, diventa più economico raggiungere aree tropicali e calde e distillati ‘nuovi’, come Tequila e Cachaca, si conquistano una propria fama.
Il presente
La miscelazione ha vissuto quindi non poche difficoltà, ma nella nostra epoca, che potremmo definire Disco Era, ha saputo acquisire una rinnovata importanza. Oggi molti cocktail bar cercano di focalizzare il loro lavoro su una distribuzione di alcolici più consapevole, attribuendole anche un rilievo culturale, e proprio il dialogo tra tradizione e innovazione è diventato il punto cardine per tanti mixologist che, valorizzando il territorio e usando la giusta strumentazione, riescono a raccontare storie antiche, mescolandole in maniera elegante con la contemporaneità. Attraverso nuove tecniche e nuovi ingredienti è possibile creare un’esperienza più ricca rispetto il passato e attribuire il giusto valore alle intuizioni del bartender dietro la ricetta finale. Per riconoscere un’innovazione, bisogna fare attenzione a non concentrarsi solo sulle nuove tecniche di lavorazione ma calarsi in un nuovo modo di pensare!
La ricetta | Boulevardier from the barrell
È uno degli unforgettable drink del primo Jazz Club situato nel cuore del centro storico di Modena, il Cotton Club. È un cocktail classico, composto da Bourbon whiskey, bitter e vermouth, lasciato riposare in una botte per aceto tradizionale. L’ibridazione tra miscelazione classica e un prodotto tipico del territorio Emiliano è sorprendente! Si trasferisce questa nuova ricetta in un bicchiere ghiacciato; il drink ha un colore brillante ed esprime un gusto intenso e balsamico. Il racconto, in tre sorsi, di una storia innovativa.